Articolo del sembre 2009.
La risposta al perché della sofferenza.
“Estesa è l’area del male. Infinitamente più estesa è l’area del dolore”. (Sofocle)
E affiorano sempre le stesse domande:
perchè tutto questo dolore? Perchè tutte queste lacrime?
Domande formidabili che ci superano, ci sovrastano. “Sunt lacrimae rerum”. Quanto è intensa questa espressione virgiliana!
Tutte le cose stillano dalla loro essenza lacrime di pianto. Anche i pesci piangono ma noi non vediamo le loro lacrime. Piangono anche i fiori e noi diciamo che si tratta di rugiada. Sì, è vero: anche la creazione geme nelle doglie del parto. Ma la sofferenza è propria dell’uomo, è connaturale a lui. L’uomo può sopportare il dolore, ogni dolore. Ciò che non può sopportare è la sofferenza senza senso. E’ allora che il dolore lo sente come una minaccia e suo desiderio di essere.
Quale la risposta, nella Bibbia, agli interrogativi dell’uomo?
La risposta non è il frutto di una ricerca sull’uomo fatta dall’uomo stesso o solo da lui o principalmente da lui. L’autore della ricerca è
principalmente DIO, che sa di che cosa l’uomo è fatto e di cosa egli ha bisogno. Dopo la caduta, DIO dice ad Adamo:
“Con dolore trarrai dalla terra per tutti i giorni della tua vita il cibo… con il sudore del tuo volto, mangerai il Pane finché tornerai alla Terra da cui sei stato tratto”.
DIO dice alla Donna:
“Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze. Con dolore partorirai i tuoi figli”.
Sembrano sentenze di condanna. In realtà, sono annunci di salvezza.
La vittoria della Vita nel figlio che nasce è il frutto di un combattimento. Di un travaglio, appunto.
Come a dire: d’ora in poi, sappilo donna e tu uomo, non ci sarà mai conquista senza sforzo. E non ci sarà amore senza dolore. E non ci sarà lavoro senza fatica. Fin dagli inizi del cammino dell’essere umano sul pianeta -Terra -, la sofferenza non è fine a se stessa: è sempre per qualcosa, che va sempre oltre la sofferenza. Nella Bibbia, il soffrire non è più un sub – ferre (un sopportare) ma un sursum – ferre: un innalzarla, un sublimarla. Sono le pene come le onde del mare: elevandosi al Cielo perdono la loro amarezza.
Sempre nel Libro della Genesi si coglie un altro esempio della “Teologia del dolore” e il saper leggere in profondità (intus legere) i fatti della sofferenza alla luce della Fede. Giuseppe, uno dei dodici figli di Giacobbe viene venduto dai suoi fratelli per un gruzzolo di denaro e deportato in Egitto, dove sarà investito della carica di fiduciario del Faraone. Agli stessi fratelli, che ricorreranno a lui spinti dalla fame, Giuseppe dirà, dopo essersi fatto riconoscere: “non vi rattristate per avermi venduto… DIO mi ha mandato qui prima di voi per assicurare a voi la sopravvivenza nel Paese colpito dalla carestia e per salvare in voi la Vita di molta gente… Se voi avete pensato del male contro di me, DIO ha pensato di farlo servire a un bene”.
C’è nella Bibbia il personaggio più emblematico ed è Giobbe, il sofferente innocente. Il commento lo lascio alle parole di Karol Woityla: “Giobbe, che si professa ed è innocente, contesta tuttavia il principio che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. Non è vero che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia il carattere di punizione. Ma la sofferenza di un innocente deve essere accettata come mistero che noi non possiamo penetrare con la nostra intelligenza”.
Giobbe è l’uomo delle quattro virtù: integro, retto, timorato di DIO, alieno dal male. Ma non è paziente.
Tutt’altro! E’ un ribelle. Non nel segno della protesta sterile o della rivolta convulsa ma della sfida audace. Giobbe sfida DIO perché ha fiducia in DIO. Nell’orecchio di DIO configge ben quarantotto interrogativi come altrettanti spilloni, fiducioso nella risposta di DIO che – che se non sempre ci parla – sempre però ci guarda e ci ascolta. Perché soffrire? Perché arrotoli la tenda della nostra esistenza e ne dissolvi in un attimo l’ordito? Se tu esisti, perché esiste il male? Questi alcuni degli interrogativi giobbiani.
Siamo tutti figli di Giobbe oltre che di Agostino di Ippona, di Tommaso D’Aquino, di Erasmo e di Pascal. Il DIO di Giobbe non è il DIO “conosciuto per sentito dire”; non è il DIO dei filosofi o della tradizione. E’ il DIO conosciuto attraverso una diretta e sofferta esperienza. “Sono i miei occhi, o DIO, quelli che ti hanno visto”.
Il nome Giobbe non è portato da nessun altro personaggio biblico. E’ citato solo da Ezechiele (14,14 -20). E’ diffuso in Mesopotamia. Il suo significato è questo: “Ma dove è il mio Padre (DIO)”? Anche il nome Giobbe è una domanda.”Il mio nome è una domanda” dirà Jabés nel “libro delle interrogazioni”.
La mia libertà è nella propensione alla domanda.
Giobbe, l’uomo delle quattro virtù, l’uomo colmo del Bene e di tanti beni (10 tra figli e figlie, 7000 pecore, 3000 cammelli, 500 coppie di buoi e una numerosissima servitù) viene colpito – nelle sue carni vive – da una “piaga maligna”. Una piaga, che nella cultura del tempo comporta l’esclusione dalla vita familiare, sociale e, perfino, religiosa.
Giobbe deve uscire dalla sua casa, dal suo villaggio, per andare ad abitare nel luogo della desolazione e della solitudine dove si inceneriscono i rifiuti. Su quelle scena di tristezza e di morte popolata – un giorno – dalla presenza di tre amici venuti a confortare la sua sofferenza si stende una lunga settimana di silenzio come a significare l’incapacità di spiegare e di risolvere il mistero del dolore umano. Tacciono i tre amici e tace anche Giobbe. Ma a infrangere il silenzio di quei sette giorni che sembrano lunghi come un secolo, si innalza il grido di Giobbe, che – abbandonata la Parabola dell’uomo giusto e fedele anche nella prova – maledice il giorno della sua nascita: “perché non sono morto fin dal seno materno e non sono spirato appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto? Perché due mammelle mi hanno allattato? Perché dar luce a un infelice e la Vita a chi ha l’amarezza nell’Animo? I lamenti sono il mio cibo e bevanda i miei gemiti che sgorgano dal Cuore come acqua”.
La veemenza di Giobbe è tale da schiantare i cedri del Libano, quando gli fa invocare la morte: “Volesse DIO ora schiacciarmi, stendere la sua mano e sopprimermi, salterei di gioia pur nell’angoscia”.
Davanti ai suoi amici spazza via il luogo comune secondo cui ogni sofferenza porta il marchio doc di una colpa: “Tu sei colpito perché hai peccato”. A ogni colpa corrisponde una punizione.
“E’ grande l’area del male ma la sofferenza abbraccia e avvolge anche l’area della innocenza”. Giobbe proclama con forza pari alla sincerità della sua innocenza e vuole vedersela personalmente con DIO per discutere con LUI il problema del male.
Dio ha fatto l’uomo come suo unico interlocutore tra tutte le altre creature. Lo scandalo della ragione umana è provocato da un doppio versante: tante sofferenze senza colpa e tante colpe senza adeguato castigo. Giobbe non accetta un tipo di teologia, che condanna l’uomo innocente pur di salvare DIO.
L’enigma è ancora indecifrabile per Giobbe perché nel suo orizzonte spirituale con ancora si affaccia la speranza in una Vita futura, in un Aldilà che serva a spiegare l’aldiqua.
Ma Giobbe non rinuncia a sondarlo. Vuole sapere. “Tu solo, o mio DIO, puoi dare una risposta ai miei trafiggenti interrogativi”.
E’ questa è la Fede di Giobbe che riconosce la superiorità di DIO ma non ammette che DIO gli diminuisca la dignità umana.
Giobbe non parla a DIO con discorsi filosofici o con argomenti giuridici ma con lo slancio incontenibile del suo Cuore per difendere con tutta la passione dell’Amore quella dignità che l’uomo ha ricevuto da Dio come il Dono maggiore. E osa fare a DIO la domanda capitale, la stessa che farà GESU’ sulla Croce: “Mio DIO, cosa ti ho fatto? Non sono servite a nulla le mie Preghiere?”.
Giobbe non molla, non cede; accetta tutto e insegna il riscatto, non abbandona mai la certezza che alla fine sarà premiato e riammesso nel Grembo dell’Amore e della ricchezza. Possiederà il doppio dei beni e del Bene che aveva e “morirà sazio di giorni”. Una storia drammatica a lieto fine.
Giobbe è la figura più alta dell’uomo chiamato alla responsabilità e al dovere. E’ in questo che Egli ha trovato la risposta alla domanda sul perché del soffrire: “La salvezza sta nello Spirito di Sofferenza che si accompagno allo spirito della Fedeltà”. Solo che per giungere a questo Traguardo finale occorre L’intervento di quel DIO che si sarebbe rilevato in GESU’ di NAZARETH.
In GESU’ il DIO che si pensava facesse soffrire l’uomo si rileva come il DIO che soffre per l’uomo.
Cristo non è venuto sulla Terra a portarvi la Croce. La Croce c’era già con il suo groviglio di pene e di angosce. E’ venuto nel Mondo per
indicare il modo nuovo di portare la Croce e a proclamare con forza che – malgrado le apparenze – la Croce porta oltre la sofferenza, oltre la morte: porta sotto l’Arco luminoso della Pasqua.
Egli è venuto a liberarci non tanto dal dolore quanto da un dolore senza senso, senza significato e per questo inutile, sterile e persino maledetto. Lo ha strappato alla sua inutile disperazione per riconsegnarlo tra le braccia del Mistero di bellezza. “La bellezza è il dardo di Luce che ferisce l’Anima e la fa sanguinare” (Benedetto XV).
La bellezza è l’Amore che si spinge fino al dono totale di sé, fino alla Kenosis. E’ bello il volto trasfigurato sulla Cima del Monte Tabor. Ma è ugualmente bello il Volto sfigurato del Cristo nell’Orto del Getsemani. Per risplendere, i gioielli sono sottoposti non ad una molle operazione di lisciatura ma di… sfaccettatura: Tanti tagli netti simili a colpi di scalpello. Nella Kenosis (totale abbassamento di sé) risplende la bellezza di DIO. Tra l’altro l’umiltà è “la sommità della conoscenza” (Mario Luzi). Il dolore, scandalo per la ragione e scandalo per la stessa Fede, Cristo lo stana dalla sua assurdità e gli conferisce un valore salvifico, che trova nell’Amore la punta di Diamante che lo penetra e l’attraversa: L’Amore è un “Infinito” dentro il Cuore del “Finito” che è il Dolore.
Quando si Ama la stessa sofferenza è amata. Amare, soffrendo, è Grazia. Soffrire senza Amare è cupa tragedia.
Il Dolore diventa così il perno della rotazione dal negativo al positivo. E’ questa la forma algebrica della sofferenza non respinta ma accettata e accolta: – x – = + .
In questo senso la Croce è un gigantesco segno +. Sta a significare superamento del male nel bene, della morte nella Vita, superamento della sofferenza nella Gioia, dell’enigma nel Mistero.
E’ un andare oltre, nel segno della speranza non nella Vita dopo la morte ma della Vita contro la morte.
Il dolore è per un futuro da costruire non per un passato da rimpiangere. I rimpianti sono sassi di inciampo sul Cammino della speranza. La Fede nell’assolutamente Altro, che è DIO, ci fa respingere la disperazione come tentazione la più perversa e come tradimento del suo Amore.
Cristo non è venuto a fornirci le spiegazioni sul dolore. Il dolore se lo assume per solidarietà con l’uomo. E’ il prezzo del riscatto. Il conto è pagato per tutti non per costrizione ma per una libera scelta d’Amore.
Questo è il Cuore del Cuore della Fede: un innocente che soffre e che muore per tutti.
E’ la risposta massima ad ogni Giobbe della Storia; Esprime la Verità dell’Amore mediante la Verità della sofferenza .
L’elemento fondativo del Cristianesimo è proprio nel fatto che DIO soffra. Soffre con noi, soffre per noi. E, il DIO nostro, un DIO simpatetico. Il dramma dell’uomo diventa il suo dramma. Una ferita aperta nel Cuore dell’uomo ne apre mille nel Cuore di DIO. “Io soffro per Te per il solo fatto che ti amo. Più soffro per Te e più il mio amore diventa Grande”.
Pensate: Nel Vangelo prima “dell’Amte: Nel Vangelo prima” dell’Amdare la morte a chi si ama.
DIO – PADRE risparmia il Figlio mortale di un uomo mortale: Isacco ma non risparmia il proprio Figlio immortale: GESU’. E’ il paradosso dei paradossi, è la prova radicale della Fedeltà a DIO ma non perché DIO ha bisogno della sofferenza innocente per placare la sua ira suscitata dal male dell’uomo ma perché è LUI il primo a pagare il prezzo del sangue per la rigenerazione della nostra libertà.
La Lancia di Longino trapasserà il Costato del FIGLIO ma farà di più nel PADRE: ne trapasserà l’Anima.
Come porci dunque davanti al Dolore? Nel segno della rassegnazione? Ma la rassegnazione “designa” il male, lo circoscrive, lo riconosce come castigo, chiudendo così l’ascesso.
La rassegnazione non è Parola Evangelica. Nel segno della ribellione, della rivolta prometeica? No, di certo. Il Grido cristiano non è il Grido della ribellione sterile, non è l’urlo spaventoso di Munch.
Contro il dolore ci si pone nel segno della sfida, che contiene in sé il germe della fecondità.
La sfida è purificazione, è catarsi. Essa apre le ferite, lascia scolare le secrezioni ma… solo per guarirle.
Come cristiani, non facciamo retorica sul dolore. Soprattutto diciamo che non è un castigo, potrebbe suonare blasfemo se lo dicessimo. Nel Vangelo GESU’ non ci dice: “Soffrite come io ho sofferto”.
Ci dice piuttosto: “Amatevi come IO ho Amato Voi”. Egli ha sofferto per noi perché noi soffrissimo di meno; per noi ha chiesto non la grazia della rassegnazione ma la grazia di difendere la Vita, come il Bene assoluto. Concludo con una annotazione di natura sociologica. Le grandi civiltà e le grandi religioni sono le risposte umane e divine alle sfide della sofferenza e della morte. Se sul cammino dell’umanità non ci fossero stati ostacoli, intoppi, lotte, sofferenze non ci sarebbe stata nessuna spinta in avanti. La Sofferenza rompe il sonno della mente. Mi chiedo e vi chiedo: “C’è un’opera d’arte, qualunque sia il linguaggio che la esprime, che non sia stata generata da uno strappo doloroso da una lacerazione profonda? Io benedico il vomere che squarcia il terreno della mia Esistenza e la mano che nei solchi aperti vi getta i semi della Verità, della bellezza, della bontà”.
Don Michele Di Lorenzo.
Ed io, Stefano ddg, ringrazio il pensiero colto, intelligente ed empatico dell’Autore, caro Amico.